lunedì 30 giugno 2025

El Sueno de una Mariposa Blanca

" Il Sogno di una Farfalla Bianca "  ē una scultura in ceramica vicentina semi refrattaria e colorazione con smalto bianco .

" Solo il sogno di una farfalla bianca

 può  sfiorare le nostre anime 

toccare i nostri cuori

volare su di noi ....  "

E risaputo che le opere parlano da sole , e come tali non vanno mai spiegate , questa volta però insieme a questa scultura  mi e' venuta di getto questa breve poesia quasi sussurrata dalle belle labbra di questa piccola fata e  la riporto poiché  la sento tutt'uno con questa scultura .... ma chissà a voi cosa sussurrerà!

Guido Roggeri 

Scultore Ceramista 

https://sites.google.com/site/roggeriscultore/

Ma chi sono le fate .

 Le fate e gli esseri elementari sono entità spirituali associate alla natura, spesso considerate parte del "piccolo popolo" o spiriti della naturaLe fate, in particolare, sono spesso descritte come creature belle e magiche, connesse a specifici elementi o luoghi naturali, mentre gli esseri elementari sono spiriti che incarnano le forze della natura, come il fuoco, l'acqua, la terra e l'aria. 

Esseri Elementari:
  • Spiriti della Natura:
    Sono considerati spiriti della natura, che vivono negli elementi e li animano, e sono spesso rappresentati come creature che possono interagire con il mondo fisico e gli esseri umani.
  • Connessione con la Natura:
    Gli esseri elementari sono intrinsecamente legati alla natura, partecipando alla sua creazione, evoluzione e mantenimento.
  • Ruolo nella Creazione:
    Alcune teorie suggeriscono che gli esseri elementari siano coinvolti nella creazione e nel mantenimento dell'equilibrio del mondo naturale e che abbiano un ruolo fondamentale nella crescita e nella salute delle piante e degli animali.
  • Interazione con l'Uomo:
    Gli esseri elementari sono spesso descritti come in grado di interagire con gli esseri umani, sia direttamente che indirettamente, influenzando i nostri pensieri, emozioni e azioni.
  • Diverse Tipologie:
    Gli esseri elementari sono spesso classificati in base all'elemento con cui sono associati: gnomi (terra), ondine (acqua), silfidi (aria), salamandre (fuoco). 

Fate
  • Esseri fatati:
    Le fate sono generalmente descritte come esseri femminili, spesso associate alla bellezza, alla magia e alla natura.
  • Poteri magici:
    Sono spesso dotate di poteri magici, come la capacità di volare, trasformarsi e influenzare il mondo naturale.
  • Connessione con la natura:
    Anche le fate sono profondamente legate alla natura, vivendo in boschi, prati e altri luoghi selvatici.
  • Leggende e miti:
    Le fate sono presenti in molte leggende e miti di diverse culture, spesso rappresentate come creature misteriose e affascinanti, con poteri soprannaturali. 
Interazione tra Esseri Elementari e Fate:
  • Legami:
    Le fate sono spesso considerate come esseri elementari, o come creature che vivono a stretto contatto con essi, e che possono interagire con loro e con il mondo naturale.

  • Ruolo nella Natura:
    Sia le fate che gli esseri elementari sono visti come custodi della natura, con ruoli specifici nell'equilibrio ecologico del pianeta.
  • Preservazione della Natura:
    La consapevolezza e il rispetto per le fate e gli esseri elementari sono spesso visti come un modo per preservare la natura e promuovere l'armonia con il mondo naturale. 

In sintesi, le fate e gli esseri elementari sono entità spirituali che giocano un ruolo fondamentale nella natura e nell'interazione con gli esseri umani, e sono spesso associati a poteri magici, leggende e miti. 


La Rupe dell'Angelo

" La Rupe dell'Angelo " e' il titolo di questa scultura in ceramica vicentina refrattaria , colorata con miscela  di ossidi metallici e cotta con tecnica Raku .

" Se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te " .


Questa frase mi e' risuonata durante tutta la creazione di quest'opera :

Su questa profonda frase di Nietzsche metto a seguire un'interessante riflessione di Francesco Lamendola che ,secondo me , la contestualizza in modo egregio con i nostri tempi travagliati.


Guido Roggeri GuRo Scultore Ceramista



Settembre 4, 2019

da Ricognizioni 

Francesco Lamendola


Nel quarto capitolo di Al di là del bene e del male (1886), intitolato Detti e intermezzi, Friedrich Nietzsche fa la sua celebre, profondissima osservazione: “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”. Ebbene: il problema della nostra civiltà, o piuttosto della nostra anti-civiltà moderna, è appunto quello che essa ha guardato troppo a lungo nelle profondità insondabili dell’abisso; e sta continuando a farlo tuttora. L’abisso in cui essa guarda, o meglio in cui guardano, affascinati e sedotti, i suoi figli, è l’abisso del relativismo, del materialismo, del nichilismo: è l’abisso degli abissi, cioè il nulla, il vuoto.

I padri della modernità sognavano di riempire il vuoto, creato dalla distruzione sistematica della Tradizione, con i loro nuovi idoli: la ragione scientifica, il progresso illimitato, l’edonismo eretto a sistema, la teoria dei diritti innati e inalienabili, il successo fine a se stesso. Per questo la civiltà moderna (chiamiamola pure così, tanto per capirci) è la civiltà della tecnica: perché solo in una civiltà che ha azzerato la Tradizione, che ha reciso i legami con la trascendenza, che ha represso, negato e deriso la tensione metafisica dell’uomo, gli uomini possono illudersi di affrontare e risolvere i problemi dell’esistenza mediante delle soluzioni tecnologiche.

Solo in una civiltà spiritualmente inaridita, grossolanamente materialista, si può pensare che le macchine siano tutto ciò di cui v’è bisogno per fornire agli uomini gli strumenti per vivere. Le macchine e la tecnica, però, risolvono i problemi, ma solo in senso materiale; non hanno nulla da dire sui fini, sugli scopi; non sono neppure interessate a capire in quale direzione si stia andando. A loro basta avanzare, risolvere, proseguire: a che scopo, per fare cosa, per andare dove, sono tutte cose che esorbitano dalle loro funzioni e anche dalle loro possibilità. Perciò gli uomini moderni sono prigionieri di un meccanismo da loro stessi creato: il meccanismo del fare, nel quale il continuo progresso tecnologico accelera sempre più il movimento, senza che s’intravveda il senso, e tanto meno la meta, di esso.


Ora, proprio questa corsa senza una meta, questo movimento senza uno scopo determinato, ma che tende a essere sempre più la giustificazione retroattiva di se stesso, con la tecnica che detta all’uomo le mete da raggiungere (diciamo la tecnica nel senso più ampio del termine: dalla tecnica dell’economia alla tecnica della fecondazione artificiale), fa sì che gli uomini siano attratti e quasi affascinati da questo movimento vertiginoso, del quale nessuno ha compreso la destinazione finale, e anzi del quale molti negano che vi sia una destinazione finale, essendo il concetto stesso di progresso illimitato tale da escludere che vi sia mai, non che una meta, neppure una sosta.

Il che delinea una situazione psicologica e morale simile a quella descritta da Nietzsche: un guardare troppo a lungo nell’abisso, che finisce per trasformarsi nell’azione reciproca, dell’abisso che guarda all’interno di colui che sta guardando. E quando l’abisso guarda dentro qualcuno, se costui se non possiede una idonea preparazione, è perduto: è una di quelle esperienze dalle quali non si può tornare indietro, non si potrà essere mai più quelli di prima. L’abisso, infatti, è ciò che supera ontologicamente, e non solo psicologicamente o intellettualmente, la misura umana; quando un essere umano è scrutato dall’abisso, si trasforma, per così dire, da cacciatore a preda: non è più lui che avanza e che agisce, ma è afferrato e posseduto da qualcosa che è più grande di lui e, soprattutto, che è estranea alla sua natura.

La differenza ontologica fa il resto: essere afferrato e posseduto da qualcosa di estraneo significa, per l’uomo, morire: e se non è la morte fisica, è tuttavia la morte morale. Sono forse vivi, nel senso comune del termine, quegli esseri umani che hanno fatto da cavie, volenti o nolenti, magari ancor prima di nascere, fin dal concepimento, ai mostruosi esperimenti di una scienza impazzita? Sì, lo sono, ma non più in quanto esseri umani; sono divenuti qualcos’altro: qualcosa che eccede la misura della condizione antropologica, e che non ci sono neanche parole per descrivere. Chi può dire cosa sentono realmente?

Se, dunque guardare nell’abisso troppo a lungo equivale a un viaggio senza ritorno, bisogna trarne la conclusione che gli uomini moderni sono pellegrini perduti, viaggiatori che non potranno mai più tornare a casa, non potranno mai più rientrare in se stessi. Qualcosa è intervenuto a modificare la loro natura; qualcosa ha alterato la loro umanità, penetrando dall’esterno: l’abisso ha invaso e annebbiato la loro anima, ha stravolto la loro percezione della realtà, ha radicalmente modificato le loro coordinate interiori.

Visti dall’esterno sono gli stessi di prima, gli stessi di sempre, solo vestiti in modo diverso e circondati da oggetti e abitudini diversi da quelli di cento o di mille anni fa; ma in realtà appartengono a una nuova razza, a una razza di mutanti, di ibridi post-umani, che non sente, non ragiona, non giudica in maniera umana, bensì in maniera post-umana. Che cosa siano diventati, nessuno lo può dire con certezza; tanto più che essi, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno alcuna coscienza di quel che è avvenuto in loro. Non si sono neppure accorti di quel che è accaduto, fuori di loro e dentro di loro; e proprio questa è la prova del fatto che la loro mutazione è senza ritorno: solo se chi è cambiato si rende conto d’essere cambiato, esiste, per lui, una possibilità di rientrare in se stesso, nel suo io di prima; ma se chi è cambiato non se n’è accorto nemmeno, la sua mutazione è definitiva e irrevocabile.

Possiamo chiarire questo concetto con un esempio pratico. Tutti sappiamo cos’è un bambino di cinque, sei, sette anni. Ma se a quel bambino viene concesso di guardare troppo a lungo nell’abisso del suo telefonino, arriverà il momento in cui egli non sarà più il bambino che era prima, né potrà ritornare ad esserlo, quand’anche lo volesse (e certamente non lo vorrà). Non sentirà più come un bambino, non ragionerà più come un bambino, non vedrà più il mondo come lo vede un bambino: lo vedrà come lo vede un essere ibrido, che ha il corpo di un bambino, la maturità di un bambino e la volontà di un bambino, ma che ha acquisto una serie di abilità e di nozioni, ha introiettato una psicologia e fatto suo un punto di vista che non sono più quelli di un bambino, ma di un adulto, anzi di un particolare tipo di adulto: colui che vive in uno stato di dipendenza dal telefonino.

Ora, nessuno sa che cosa veramente senta, pensi e giudichi un essere ibrido di questa natura: e tale è appunto la ragione per la quale noi avvertiamo oscuramente – ed è una delle fonti della nostra angoscia esistenziale – che i nostri figli ci stanno sfuggendo, che si è creato un diaframma invisibile, ma insuperabile, fra noi e loro. Ma naturalmente, quello del telefonino è solo un esempio: e magari non si trattasse che di quello; benché rappresenti un pericolo oggettivo per la crescita normale dei bambini, la minaccia è molto più ampia. È tutto l’orizzonte in cui si muovono gli uomini moderni a costituire, di per sé, un qualcosa d’innaturale, di forzato e di alieno: è l’abisso nel quale guardano fissamente, senza ormai più rendersene conto.

Gli uomini moderni sono diventati, alla lettera, il popolo dell’abisso – sembra il titolo di un romanzo di fantascienza, o meglio di un romanzo del terrore – ma il paradosso è che non lo sanno; e che, se qualcuno provasse a metterli in guardia, non otterrebbe come risposta che un incredulo sorriso, non scevro di una certa qual sufficienza e di un certo qual compatimento. Non è forse evidente che essi, grazie alle sempre nuove conquiste della scienza e della tecnica, stanno trionfalmente marciando verso le magnifiche sorti e progressive? Ne sono talmente convinti, che il pensiero di essersi affacciati sull’abisso raramente li sfiora, e quasi mai li turba.

Del resto, essi possiedono un modo pressoché infallibile per rassicurarsi: la prova a contrario. Quando qualcuno solleva delle obiezioni a un modello di crescita senza sviluppo e di sviluppo senza progresso; quando qualcuno obietta loro che è un grosso rischio quello di salire su di un convoglio che acquista via, via, una velocità sempre maggiore, ma la cui destinazione è tuttora ignota, per ammissione dello stesso capotreno, anzi della stessa dirigenza della società ferroviaria, e che forse le rotaie non giungono che fino a un certo punto del tragitto e lì si arrestano, dopo di che inevitabilmente vi sarà un deragliamento, essi rispondono, con un imperturbabile sorriso di superiorità: Forse che qualcuno vorrebbe scendere? Forse che qualcuno vorrebbe tornare indietro? Lei conosce per caso qualcuno che preferirebbe tornare alla candela, invece della luce elettrica; alla carta e penna, invece del computer?


Con queste o altre simili frasi, essi ritengono di aver spiazzato l’interlocutore e di aver opposto un argomento inoppugnabile a qualsiasi obiezione, per non parlare di critiche. Ahimè, non è affatto così. Sì, è vero che gli uomini moderni non sono disposti in nessun modo a rinunciare ai loro modi di vita basati sulla tecnologia: diversi esperimenti hanno mostrato che anche solo rinunciare per un periodo limitato alla televisione, per una famiglia tipo, appare come un sacrificio insostenibile. Da ciò, tuttavia, non discende la bontà intrinseca di quel modo di vita, né, meno ancora, la razionalità di coloro che l’hanno adottato: dimostra solo quanto grande sia la debolezza della volontà umana, specie quando la tecnologia ha abituato le persone a disporre di tutte le comodità possibili, anche per svolgere le funzioni più futili della vita quotidiana.

C’è una cosa, tuttavia, alla quale sono in pochi a pensare, anche fra i cattolici che pure questo concetto dovrebbero avere ben chiaro. L’abisso nel quale guardano gli uomini moderni, e che a sua volta guarda dentro di loro, non è uno spazio “neutro”: è lo spazio di ciò che si oppone al senso, al valore, al giusto, al bello; è lo spazio del Male. L’abisso è il diavolo, insieme alle forze oscure che a lui sono collegate. L’abisso è ciò che si vede nell’aeroporto internazionale di Denver, in Colorado: un inno alle forze oscure, una dichiarazione di osservanza alla massoneria. L’abisso è anche la cerimonia d’inaugurazione del tunnel del Gottardo: cerimonia orribile, satanica, con la quale si è voluto porre quel grande manufatto umano, costato tanto tempo, tanto denaro e tanta fatica, sotto l’alta protezione, se così vogliamo dire, del Maligno. E l’abisso è anche il Santuario di San Giovanni Rotondo, destinato ad accogliere uno dei più grandi santi degli ultimi secoli, padre Pio da Pietrelcina, ma che oscuri registi hanno voluto trasformare in un tempio massonico, stracolmo di simboli massonici e privo o quasi di espliciti riferimenti cristiani, stravolgendo con sottile malizia la sua funzione e recando un diabolico oltraggio, una ‘infernale e calcolata profanazione nei confronti dei resti mortali del grande frate cappuccino.

L’abisso è poi un papa che non è papa, che non parla di Dio, del mistero del peccato e della Grazia, della penitenza e della Redenzione, ma sempre e solo dei migranti, del clima, delle emissioni di anidride carbonica, della minaccia alla biodiversità e del problema dello smaltimento dei rifiuti di plastica. Sì, questo è l’abisso: l’abisso della mistificazione, dell’eresia e dell’apostasia spacciate per normalità, per cattolicità, per amore di Dio; l’abisso della menzogna promossa a verità e della verità fatta passare per menzogna; del male spacciato per bene e del bene calunniato come se fosse male; della giustizia pervertita in ingiustizia, e dell’ingiustizia promossa a giustizia.

Gli uomini moderni, sprofondati nel relativismo, assuefatti al soggettivismo e rotti a qualsiasi arbitrio morale, a qualunque compromesso con la propria coscienza, non solo si ritengono in diritto di capovolgere tutti i valori, con la scusa della libertà e della realizzazione di sé – concetti che adoperano senza rendersi minimamente conto del loro vero significato – ma si sono talmente induriti e inariditi, da non rendersi più neppure conto della perversione dei valori, di cui sono artefici e vittime al tempo stesso.

La cifra della modernità, infatti, è la superbia: per superbia che gli uomini moderni hanno voluto recidere i legami con la Tradizione, ed è sempre per superbia che pretendono di rifare il mondo da cima a fondo, perché quello che hanno trovato a loro disposizione, quello creato da Dio, era, secondo loro, pieno di errori e imperfezioni, mentre quello che vogliono costruire sarà magnifico, sarà perfetto, senza neppure un tassello fuori posto, opera infallibili architetti che si sentono, essi, dei piccioli dèi, e perciò anche in diritto di manipolare illimitatamente la natura: con la clonazione, con la fecondazione eterologa, con la creazione di esseri ibridi, il tutto in nome scienza e del progresso.

Se, dunque, l’abisso in cui si specchia la civiltà moderna è il diavolo, nessuno è abbastanza forte da poter sostenere il suo sguardo senza esserne soggiogato e trasformato in uno dei suoi miserabili satelliti. C’è una sola possibilità di guardare in faccia il diavolo e rimanere illesi: avere la protezione di Dio, essere in grazia di Lui. Ma gli uomini moderni hanno voltato le spalle a Dio, hanno deciso di far da soli e di costruire la loro Torre di Babele come una sfida all’Onnipotente. Il loro è un peccato si superbia, così come per superbia Adamo ed Eva hanno disobbedito e hanno mangiato il frutto proibito, nel Paradiso terrestre. Ne consegue che la sola via d’uscita dal vicolo cieco in cui gli uomini moderni si sono cacciati è la riscoperta del valore dell’umiltà, del sapersi fare piccoli, del riconoscersi creature. Eppure, in loro c’è una scintilla divina: sono creature fatte a immagine di Dio! Forti di questa consapevolezza, e tuttavia consapevoli dei loro limiti e della loro fragilità ontologica, possono ancora fermare il treno impazzito della modernità, e rientrare in se stessi: perché senza Dio, non si arriva da nessuna parte…


Se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà te - Ricognizioni https://share.google/BmYxic0TQs8MK2lql


domenica 29 giugno 2025

IKTOMI : il ragno di fiamme azzurro cielo .

Scultura di ceramica refrattaria Colorata con ossidi metallici e tecnica di cottura Raku .
Questa scultura e' nata dal fortunato incontro che ho avuto oramai trent'anni fa con la Cultura Nativa Nord Americana Lakota e con la sua ricchissima Visione Spirituale.
In quest'opera ho raffigurato Iktomi l'enigmatico tessitore di Sogni e di Visioni, l'insegnante tanto saggio quanto burlone .

Guido Roggeri GuRo Scultore Ceramista



I Lakota credevano in una divinità che chiamavano Iktomi, che con la sua saggezza avevano portato insegnamenti essenziali all’uomo. Credevano che Iktomi apparisse a volte in forma umana, con l’aspetto di uomo alto con la faccia dipinta di rosso e di giallo.
In genere, però, si manifestava agli uomini con le sembianze di un ragno molto saggio che a volte parlava per enigmi e altre era molto burlone. Conosceva molte storie, alcune pazze, e di tanto in tanto le condivideva con i mortali. È stato proprio Iktomi a lasciare in eredità ai Lakota la leggenda dell’acchiappasogni.
“Ognuno di noi è stato messo in questo tempo e luogo per decidere personalmente il futuro dell’umanità. O pensavate di essere stati messi qui per qualcosa di meno importante? ”
-Arvol Looking Horse, capo della nazione Lakota-

Una montagna magica
La vita e le età dell’uomo
L’acchiappasogni
Si racconta che molti anni fa, quando il mondo era ancora giovane, un vecchio lakota stava scalando una montagna quando ebbe una visione favolosa.
In essa apparve Iktomi, grande maestro del mondo, sotto forma di ragno. Cominciò a parlare nella lingua sacra, la più adeguata per trattare questioni importanti.
Mentre parlava, Iktomi prese un ramo del salice più vecchio e fece con esso un anello. Poi, raccolse dei crini di cavallo, alcune piume di uccelli colorati, perline e altri piccoli e bellissimi oggetti. Quando ebbe tutto pronto, iniziò a tessere.
Mentre tesseva, disse al vecchio che la vita è un ciclo. L’inizio e la fine si incontrano sempre. Non ci muoviamo in linea retta, al contrario di quanto potremmo pensare. In realtà, iniziamo un ciclo per finire all’inizio di uno nuovo e così via per sempre.
Iktomi disse all’anziano che anche le età dell’uomo sono cicli. Cominciamo la vita come esseri fragili e dipendenti dalle cure altrui. Gradualmente diventiamo più forti, camminiamo sulle nostre gambe, poi corriamo e diventiamo adulti. Questo fa di noi persone capaci e libere.
Tuttavia, prima che ce ne rendiamo conto diventiamo anziani e torniamo fragili e dipendenti dagli altri. Qui si chiude il cerchio e arriva la morte. La fine è simile all’inizio e il ciclo si ripete ininterrottamente, tutte le volte che l’uomo nasce sulla terra.
Iktomi continuava a intrecciare il suo anello di salice, mente il vecchio lakota lo ascoltava affascinato. La rivelazione gli sembrava straordinaria. Aveva capito che non esistono progressi in avanti, ma verso la fine. E che ogni fine è anche un inizio. Questo è il significato ultimo dell’acchiappasogni.
Iktomi proseguì con i suoi insegnamenti. Disse al vecchio che in ogni fase della vita ci sono molte forze che agiscono in direzioni diverse. Alcune sono positive e altre negative. Queste forze possono alterare l’armonia naturale del destino.
Pertanto, dobbiamo fare molta attenzione e imparare a riconoscerle, dal momento che non sempre il bello sembra buono o il cattivo si presenta a noi come qualcosa di brutto.



Iktomi tesseva la sua ragnatela dall’esterno dell’anello verso l’interno. Tuttavia, a un certo punto si fermò e lasciò un buco nel centro. Poi disse al vecchio che gli avrebbe regalato quell’intreccio, in modo che tutti i Lakota imparassero a fare buon uso dei sogni e delle visioni.
Le buone idee e i buoni progetti sarebbero rimasti intrappolati nella rete, mentre i cattivi sarebbero caduti attraverso il buco che si trova al centro.
L’uomo trasmise la leggenda dell’acchiappasogni alla sua tribù. Da allora i Lakota hanno usato l’intreccio di Itkomi come base per costruire il loro futuro. Gli occidentali lo chiamano “acchiappasogni”. Se usato bene, serve a scrutare i sogni e i progetti, alla ricerca delle verità che guidano la vita

lunedì 25 ottobre 2021

" Building Mind "

 

C’è un muro intorno a noi. Viviamo entro una barocca roccaforte che non vediamo. Scorrazziamo liberi nei suoi cortili che crediamo il mondo, senza avvederci del limitato spazio che ci è concesso. in questo misero labirinto di ridondanti pensieri e sentimenti urge abbattere muri per costruire una Nuova Mente !


" Building Mind " opera in pietra e materiali compositi di Guido Roggeri .

Segue articolo di Lorenzo Merlo :

IL MURO .

C’è un muro intorno a noi. Viviamo entro una roccaforte che non vediamo. Scorrazziamo liberi nei suoi cortili che crediamo il mondo, senza avvederci del limitato spazio che ci è concesso. Misero vermaio di ridondanti pensieri e sentimenti.

Accade ad alcuni di divenirne consapevoli. Si dà allora la responsabilità della passata costrizione e castrazione a qualcuno o a qualcosa. Sempre però si tratta di capri espiatori che permettono di nascondere a sé stessi la verità ultima alla quale, nuovamente, ad alcuni accade di accedere. E quando ciò succede, ciò che era segreto diviene banalità.

Sotto una permanente spinta biografica, che per ontologia, non contraddice mai se stessa, realizziamo il nostro unico destino disponibile. Sempreché qualcosa in noi non evolva. Sempreché non ci si riconosca architetti e muratori del nostro muro di fondo e di circostanza. Allora, ogni singola pietra, mattone e colpo di cazzuola, serviti per erigere il muro, non sono più opera altrui ma nostra.

Sebbene la cultura – come muro eretto da altri – non la scegliamo, interrompendo l’attribuzione di responsabilità o di realtà oggettiva, possiamo emanciparci da quella in cui capitiamo. Ovvero, possiamo riconoscere le sue ragioni storiche, la sua necessarietà filosofica e anche la sua arbitrarietà e la sua strumentalità. Cioè, la sua effimera natura scambiata per definitivo muro. Il percorso necessario per avvedersi del grande slittamento di piano che tutto muta e travolge, è lavoro che compete all’individuo.

Il muro e le varie coperte di Linus sono geneticamente figli del medesimo genitore: la necessità di sostenere il proprio io. Sono rifugi, habitat, bioregioni in cui possiamo garantire la nostra sopravvivenza. In cui possiamo affermare la nostra forza, la nostra verità, identità e differenza. La dimensione del muro è proporzionale al senso di importanza personale che ne ha diretto l’edificazione. E l’importanza personale è a sua volta in funzione del gradiente di consapevolezza che l’io non è che un muro costruito intorno a noi.

Identificare se stessi con il proprio io è la conditio per determinare la delimitazione del proprio dominioEntro il quale siamo, fuori dal quale non siamo. Entro il quale sappiamo sempre dov’è il nord, fuori da quale siamo spaesati. Entro il quale percorriamo la via del vero, del bello e del giusto. Fuori dal quale le vie sono del falso, del brutto e dello sbagliato.

Chi è dominato dal proprio giudizio ferma la realtà, la definisce e reifica col suo stesso giudizio. Chi non è dominato dal proprio ego osserva il fluire del reale, ne vede le forze, grette e sottili, che su essa agiscono. In ciò che osserva riconosce sempre una verità. Nel primo caso, domina il fermo immagine, in cui si osserva una realtà corrispondente a una fotografia, la cui composizione è determinata dal nostro muro. Ad essa corrisponde sempre un nostro vantaggio. Nell’altra situazione si vede il film del divenire, la parabola della storia e la sua permanente legittimità. Una condizione che permette di sciogliere anche i muri più refrattari.

Autoreferenziati dal nostro muro, procediamo a testa alta come paladini della giusta morale, della giusta politica, del giusto impiego della forza. Il muro, un passo alla volta, ci conduce in luoghi che mai avremmo sospettato, ci produce realtà che mai avremmo voluto. In tutte le circostanze il muro impone sempre la sua legge per la sopravvivenza della nostra metafisica.

Attraverso il grande portale di accesso alla nostra fortezza transitano solo i sodali: solo le idee che non ci turbano e che confortano le nostre posizioni. Oppure, per uscire in proselitica battaglia. Dalle feritoie osserviamo il mondo esterno pronti alla difesa in caso di attacco. Una difesa spesso frutto di reazioni difensivo-emotive, incapaci di riconoscere il senso di quanto ci viene incontro. Messaggi in forma varia raramente vengono considerati, accolti, masticati, digeriti e infine fatti propri.

Per quanto le battaglie tra le idee si svolgano con armi razional-dialettiche – le sole che nel dominio razionalistico della nostra epoca, siano ritenute intelligenti – all’insaputa di tuttii soli proiettili che colpiscono sono quelli emozionali. Il resto sono salve intellettuali che, bene che vada, toccano la pelle e mai raggiungono il cuore.

E sono credute razionali, quindi le più forti e durature, pure le singole pietre che compongono il muro e gli argomenti che portiamo a sostegno della loro messa in opera. Ma è superstizione protoscientista. Di fatto, non lo sono affatto forti e resistenti, semmai ondivaghe e ribaltabili. Infatti, anche quelle pietre, ognuna di quelle è posta da una forza emozionale con ragioni esclusivamente emotive. Tutta la cosiddetta e presunta razionalità ha genitori emozionali.

L’hanno ampiamente raccontato Humberto Maturana e Francisco Varela. Ma, nonostante la loro visione abbia la potenza culturale paragonabile a quella fisica di una fusione nucleare, essa è rimasta circoscritta a tesi di laurea e a quisquiglie accademiche. L’autopoiesi di noi stessi – dicevano i due ricercatori cileni – corrisponde al muro. La cui natura è di essere parzialmente permeabile solo da ciò che è compatibile con quanto crediamo di noi. Accettiamo ciò che è già in noi, che con quello si integra. Non solo. Tale compatibilità è misurata da un regolo di tipo emozionale. Per schematizzare, si può dire che il medesimo argomento può essere accettato/rifiutato se fornitoci in tempo differente. E che, nel medesimo tempo possiamo accettare/rifiutare un identico argomento se fornitoci da fonti differenti. Il primo caso dipende dal variare della nostra intima condizione/convinzione. Il secondo dal giudizio che generiamo – e con cui ci identifichiamo – nei confronti dell’emittente.

La popolare formula apertura mentale, vorrebbe contenere questo oceano e queste profondità, così facilmente, ignoti a noi stessi. L’apertura mentale di una madre nei confronti delle malefatte del figlio tende ad essere massima. Nella circostanza il suo muro è totalmente abbattuto o permeabile. Nessun giudizio tiene a distanza il figlio. Nessuna alterazione si propaga nella madre. Diverso accade con le ideologie conclamate o minimali che siano. Lo scontro tra queste è garantito, così come l’importanza personale dei duellanti.

Con la consapevolezza che l’altro è un universo diverso, che ha quindi ritmi, vibrazioni, rotazioni e quadrature – che sono solo un accenno di un corposo elenco – possiamo rivolgerci al linguaggio, al modo e al tempo per provare ad avvicinare il prossimo, per rischiare di coniugare il nostro pensiero e il nostro spirito con il suo. In una parola, modulare il linguaggio significa ascolto. E questo allude all’assunzione di responsabilità di ciò che accade quando il muro dell’altro si dimostra impermeabile; quando dalla sua feritoia partono dardi infuocati diretti a noi.

Così come la debolezza è direttamente proporzionale alla consistenza del muro, la forza lo è indirettamente. Questa, raggiunge il suo massimo nell’ascolto, dove il muro appare minimo o abbattuto. Nella consapevolezza che l’identità è un’infrastruttura di noi, che essa non corrisponde al nostro sé universale, disponiamo di fermezza e duttilità, depurate dagli inquinamenti tossici dell’importanza personale.

Ricoperti da strati di saperi cognitivi, nei quali abbiamo annegato la vibrissa che siamo, abbiamo dimenticato chi siamo. Abbiamo abdicato l’infinito che è in noi. Un’antenna sottile e sensibile, capace di captare le energie del cosmo e del momento, capace di distinguere, discriminare, scegliere, capace di essere terra e conoscenza, capace di guidarci e fare luce nel labirinto oscuro dei momenti. Capace di informaci che in noi c’è già tutto e che quello che non troviamo, come un rifiuto, lo abbiamo buttato fuori dal muro. Per paura della vita. Per timore di essere ciò che siamo e non solo ciò che crediamo.

E allora, i traumi sono devastazioni del muro, sono sottovalutazioni del nemico. Le terapie sono consapevolezza che siamo noi a costruirlo e che difenderlo a testa bassa ci procurerà altri inconvenienti, tra cui la follia. Uno stato in cui il muro è così stretto intorno a noi da impedire il passaggio perfino alla luce.

La saggezza non sta nel non edificare la barriera ma nel prendere le distanze da esso, nel liberarsi dall’importanza personale, nel riconoscere con compassione i propri e altrui muri. Nel comprendere cosa sia la selettività mascolina e l’accoglienza femminina. Nell’andare oltre le ingenue e arroganti leggi degli uomini e riconoscere quelle imperiture e semplici della natura.

Combattere diventa allora recitare una parte, eventualmente per noi doverosa. Come per il Samurai, per il quale il nemico vinto avrà l’onore delle armi.

Articolo di Lorenzo Merlo

giovedì 15 luglio 2021

"La Mossa del Cavallo"


 Trentasette artisti tra ceramisti, scultori, pittori e artisti del vetro, hanno interpretato il tema del cavallo producendo una sessantina di opere che senz’altro attireranno la vostra attenzione; molte supereranno le vostre aspettative.

Vi aspetto dunque numerosi all’apertura sabato 10

luglio alle ore 16:00 presso la Chiesa di Santa Croce    in  Piazza Conte Rosso nel Centro Storico di Avigliana.

 

Di seguito l’introduzione alla mostra dell’archeologa e storica dell’arte dott.ssa Donatella Avanzo e, a seguire, l’invito con all’interno la presentazione dello scrittore e poeta Carlo Alfonso Maria Burdet.



La mossa del cavallo

 

Nella storia dei popoli quella del cavallo non è una presenza banale, lo sanno bene i due curatori, Luigi Castagna e Giuliana Cusino, che hanno scelto il cavallo come tema di questa notevole mostra che aprirà i battenti nella ex chiesa di Santa Croce situata nella preziosa piazza medievale del Conte Rosso ad Avigliana.
Anche il titolo della mostra riserva a questo nobile animale il ruolo di status symbol che lo rende protagonista tra i pezzi del gioco degli scacchi.


                                  " L'Ippocampo " opera  raku di Guido Roggeri


Ed è proprio dalla scultura del maestro Piero della Betta, posta al centro della mostra, che si dipanano le opere dei numerosi artisti che interpretano il tema, quasi fossero altri pezzi della scacchiera.
Ma il cavallo oltre ad essere uno fra gli animali più amati ed ammirati per la sua bellezza, forza ed eleganza, riveste anche un ruolo fondamentale nella storia umana.
Tutti noi siamo affascinati dalle decorazioni sulle pareti delle caverne o sui ripari sotto roccia che i nostri predecessori dell’Età della Pietra ci hanno lasciato quale eredità culturale. I disegni dai colori vividi e accesi sono per noi delle opere che dimostrano la necessità dell’uomo di immortalare la realtà attraverso l’arte.
Le loro opere dovevano forse avere uno scopo propiziatorio. Tuttavia, un interessante studio su Journal of Archeological Science Report mette in risalto un fatto particolare: i cavalli furono gli animali più rappresentati nell’arte preistorica.
Il fatto ė particolarmente interessante perché il cavallo ė stato addomesticato dall’uomo millenni dopo. Lo studio in questione ha esaminato più di 4700 esempi di arte del paleolitico provenienti da diversi luoghi dell’Europa risalenti ad un arco temporale compreso tra i 12000 e i 30000 anni fa e dimostra come il cavallo sia il più rappresentato, immediatamente seguito dal bisonte. I cavalli venivano rappresentati all’interno delle caverne in posti alti e visibili dove il disegno poteva risaltare rispetto agli altri animali.
Eleganza, fierezza, libertà: quali altri aggettivi possiamo usare per descrivere un cavallo? Grandi autori hanno dedicato versi che descrivono e raccontano questo nobile animale ma forse quello che racchiude il motivo di tanti scritti ė stato quello del grande drammaturgo inglese Benjamin Jonson, nato nel ‘500:
“Chiedimi di mostrarti poesia in movimento, e ti mostrerò un cavallo”.
 
Donatella Avanzo
archeologa e storica dell’arte


Video Promozionale dell' evento :